lunedì 17 febbraio 2014

la più bella del reame

A Julij Zivàgo

Il était une fois ……Once upon a time….…C’era una volta.......
Una Regina bellissima altissima biondissima che regnava sul Reame delle Case
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Il suo regno contava più abitazioni che di cristiani: multicolori, ad uno o più piani, antiche e nuove, in mattoni o pietre, tutte le case erano SUE!
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Un tristo giorno, però, durante una svagante passeggiata sulla prediletta carrozza blu, la Regina si accorse che ogni vicolo strada piazza muro parete fontanella balata era sgarrupato sbrecciato tremoloso rovinoso; su tutto olezzava un perduroso aroma di pipì: colpevole, l’animale domestico che all’uomo si approccia e si accompagna, dalla gallina alla papera dal cane al gatto al ratto.
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A ciò, marciume e laidi rifiuti di svariata e indifferenziata provenienza si addizionavano, cibo succulento di volatili infestanti e aggressivi: non nuvole, piuttosto colombi e gabbiani scurivano in stormi il cielo blu
La furia della buona Regina rimbombò di pietra in pietra: comandò ai suoi servitori di andare, con livelle righelle rolline ponteggi impalcature gomme e matite e quant’altro servisse alla bisogna, e SUBITO!, por fine a tanto scempio.
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RIpulite, RImettete in ordine, RIlavate, RIsbiancate, RIimbellite ogni cosa!!!” urlò la gentile vocina, - “E che sia fatto subito, SUBITO!”
Altrimenti..”, le pupille lampeggianti, dai servitori proni e tremanti, si volsero ai fidi imperturbabili bianco vestiti giustizieri della corona “Tagliategli la TESTA!! Tagliategli la TESTA!! Tagliategli la TESTA!!
Corsero in strada gli asserviti, e poste in un cantuccio scartoffie e documenti sin qui maneggiati, in men che non si dica, si posero al duro travagghio.

Rosato maiale
andava in quei ameni luoghi bighellonando
e di curioso deseo cianciando
agli uni e agli altri servi rivolge la parola
spizzicando pigro una scarola
Essi turbati tacer eran volenti
Ma del pingue suino le domande son insistenti
Tant’è che un di lor, il più ardito!
Narra il fatto, tutto!, a menadito

Anche i maiali hanno un cuore

L’alma gli si ricolma in meraviglia
restossi taciturno l’animale.
Indi a nessun salvo freno egli s’appiglia
e diritto e fiero al tron regale
profondo grasso e grosso egli s’inchina
dinanzi alla gentil edil Regina
toccando quasi il roseo deretano
tappeto trono e tutto l’ambaradan sovrano
E sicumer l’appella
Orsù dunque Sovrana mia più bella
non pote trattar la vil ciurmaglia
in guisa quasi fosse una canaglia!”
Silente l’osserva la Carina
Ogni chil di mordiba puntina
coscia ventre musso ben pesato
Or l’immagina a lungo nel vin frollato
Di un fil di bava si lecca la boccuccia
Sgrana i cerulei occhioni stride i denti ansima e pronuncia:
TAGLIATEGLI LA TESTA !!!! TAGLIATEGLI LA TESTA!!!! TAGLIATEGLI LA TESTA!!!!”
Residua poca carne al pingue banchetto, così nomò lo ridente ghetto


giovedì 6 febbraio 2014

Studio di una signora

            
Una delle mie più grandi pene è un anello antico che indosso sempre. Sovente ingoio il ricordo tabernacolare di mia nonna paterna puttana con la quale litigavo perché spiava e faceva spiare dai suoi numerosi conoscenti balneari e litoranei i miei amoreggiamenti adolescenziali. 

     Mia nonna è morta di ictus all’età di settantatré anni. Suo figlio maggiore – il più scozzese dei miei zii - durante crapula post esequiale mi fece dono dell’anello della grande-mère adapté à son moyen grand-doigt. La prima volta che lo indossai deposi le mani autocarezzanti alla maniera della nostra gioconda domestica e riflessami allo specchio la piansi un’unica volta, finalmente liberandomi.

        La nonna era una doppia vedova vigorosa e verbosa, sempre sbocconcellante mollichine domenicali del dopopranzo. Una gran troia era stata coi suoi figli maschi perché morto di broncodepressite loro padre elegante e dissolubile, aveva sposato e tenuto in casa un nero quadrupede baffuto nullafacente e linofilo, in recente liquame di vedovanza. 

            Egli si era riprodotto durante il precedente matrimonio in quattro esemplari di satanassi spolpati, brutti e pecorini. Era già stata troia coi suoi figli di primo covile perché l’intruso aveva niente soldi ma un gran fallo fosco - di cui una volta già vecchio intravidi il peso attraverso le sguainate mutande celestine estrapolate da cosce aperte nell’atto di infilarsi le scarpe – e contribuì non poco al loro allontanamento, ancora molto giovani, presso un nido da essi stessi ricreato pur di non presenziare al suo recital da one-man-show di minestre sucate rumorosamente e di capitale del suo predecessore ancora più precipitosamente prosciugato. 

       Il tale sfacciato – intropito – forte del pacco e di millantato carisma godeva della fantasmagorica devozione della gran nonna tettona e delle sue alte caviglie, le più belle che abbia mai visto. Troia perfino nel trasmigrarmi autentiche bocce da fruttivendola e non aristocratiche caviglie da cavalla da trotto, ma soprattutto perché sfruttava i suoi consacrati figli naturali come poteva. A uno spillava quattrini per acciuffare pesciolini di corallo che, a quanto ricordo, erano il nutrimento favorito dalle sue mani diurne e dal collo emerso dall’anima del seno e dai suoi lobi pendenti con aria candida. 

        Tanto candida pelle da abbisognare di trucco rosato d’oltremare vespertino, possibilmente ogni giorno di una nuance inventata nuova dalla sostanza mediterranea. Inoltre, con scaltrezza da bagascia – pardon, da bagatto – trapiantava quote copiose di tali denari dentro le cavità incessantemente deglutenti dei corvini suoi figliastri, formicolanti sonnambuli da bidonville rimasti nell’untuosa capsula natia mentre loro padre, come un indigesto ossicino d’oliva, girovagava stopposo nelle grandi stanze e pulite del prezioso nuovo intestino della grande-mère. A un altro figlio scroccava cibi freschi grondanti di saporite calorie e vini sfiziosi e fruttati.

      Di un altro prendeva il calore, la preoccupazione costante verso di lei e l’odio feroce, che quando si tramuta in amore è l’amore più celestiale che si possa attribuire ad una creatura mortale. La ricordo con un bieco rispetto psichiatrico, le vedo ancora un naso sottile dalle narici un po’ frementi che non mi sfugge mai perché io l’ho ripreso, parimenti sensuale e indiscreto, da lei. Un giorno mi si disse “il nonno Giovanni è morto”. “Ah”, risposi, “quel muffito è morto per davvero”

           Mio padre, per pronto accomodo, mi schiaffeggiò; io, comunque, arrivata a casa della nonna, andai a salutare il mio vero nonno mai conosciuto ritratto giovane e diuturno nella mia futura rigenerabile letteratura, e gli strizzai l’occhio. Ho omesso di dire che dal congiungimento morfologicamente eterogeneo e innaturale della gnoccolona benestante con lo sperma verdastro del favone irrancidito era nata una femmina, Francesca, dalla faccia furtiva e disordinata ma dal corpo e dalle movenze da autentica modella, ben espressa ancora oggi nei suoi cinquantotto anni trigenerativi. 

             La fanciulla era l’unica persona veramente addolorata dalla dipartita, i figli contratti si disperavano perché la morte inaspettata sotto forma di laccio emostatico avevo bloccato la opulenta defluizione di sangue di Zecca. I figli veri – e annesse nuore - della grande-mère, consolavano la duplice vedova in un parossismo di stiracchiato dispiacere di mani e fazzoletti e biascico di tacchi ridiventati familiari, tutto sotto l’umanissimo sguardo del Cristo in versione cuore-di-gesù sospeso a 45 gradi sul grande letto a cascione di legno scuro. 

               Ben presto ella affogò la sua annoiata disperazione in messianici cordogli e benevolenze e, giusto per smaltire gli eccessi lacrimali e le suppurazioni dell’inconsolabilità, prese ad arare ogni villaggio geriatricamente animato da madonnine, apparizioni, goretti, stigmatizzati, esorcisti, miracolati e perfino cesellatori di ex voto d’argento. Donde gitarelle, bianco mangiare in verre e coperchio azzurro, carrube, cesoie in borsa per amputare infiorescenze engagées in caduchi amarcord, the al pomeriggio, sciarpette in lurex, circoli di cavalieri in farfallino a pois, sandali con zeppe di corda e grossi alluci valghi introiettati ai piedi in bella vista, scoponi assolutamente vincenti e inverosimili ripetuti ambi terni e quaterne. 

           Si fece allungare un po’ i capelli, se li tinse di nero e dimagrì. Una nuova Ava Gardner, sessantacinquenne con orgoglio marmoreo e un efficace frisé di coralli, turchesi e tutti i bottoni d’osso sostituiti da cammei di madreperla, ormai destinata a irretire dieci bogart della terza età alla volta, senza per questo sentirsi obbligata a sposarne alcuno. Divenne socia di un club di mare a portata di autobus e lì, ingioiellata e munifica, si conquistò la benevolenza generale, non esimendosi da thalassoterapiche passeggiate sul bagnasciuga sabbioso di Mondello. Da qualche parte, a poca distanza da lì, passavamo le ore mattutine a soleggiarci e nuotare io e la mia mamma, le mie amiche ed io. 

         Il suo gran daffare di chiacchiericcio ecografico tuttavia non la distrasse dal vegliare sulla castità obbligatoria delle sue nipoti maggiori, me e mia cugina, in adolescenza avanzata e dunque prolifere di sorrisi e ammiccamenti, noi bellocce e coscelunghe, verso l’altro sesso. Io eccellevo per il seno, e questo s’è detto, la mia cuginetta omonima invece per un bel sedere da salvataggio naufraghi. Le promenades verso il gelataio conducevano la grande-mère guarda caso sempre più spesso nella nostra direzione, mai che la grande mèr la risucchiasse, né che una grande-merde le ostruisse il cammino. 

         Sicché, la troia tapina, sacrificò le sue canoniche ciarle aleatorie con amiche vecchie e nuove per pettegolezzi e spionaggi ben più soddisfacenti, miranti alle gesta delle sue omonime nipotine, figlie empie di figli devoti e riportandoli per il loro bene ai rispettivi papà o,ancora più condite, al papà dell’altra. Nessuno dei fratelli di mio padre era però disposto a concederle spazi domenicali tra rigori e fuorigioco, né piatti di porcellana ridondanti di sughi speziati e dolci di suo esclusivo e matronesco gradimento, né interesse per le sue faconde lungagnate sull’immoralità di un triangolo di bikini che copre appena i capezzoli o “le felle del culo”. La quale, dovendo essere accontentata, si beava di come i familiari diretti per vero o per finta si facessero inzuppare dal suo disgusto represso o dichiarato per tutti i brancofamiliari giovani, chi puttana, chi pigro, chi irrequieto. 

             Dicevo, i miei zii la sopportavano poco, perciò sbaraccava presto, grazie anche alle mogli poco propense a trascorrere le ore in cucina per appagarle il gargarozzo mai sazio di piccantume e di granfie di olio affiorante giusto per rammollirle il pane. I piatti insipidi e bianchicci e qualche chiazzetta di calcare appiccicata ad hoc finto casual sul suo bicchiere erano l’ideale per tenerla lontana da quella mensa almeno per un paio di mesi. Ergo con maggior frequenza lei sedeva a capotavola da suo figlio-mio padre, il devoto sbirro che di più l’aveva odiata e che adesso si sarebbe fatto amputare un dito perché lei posasse la mano corallina sulla sua spalla anche per mezzo secondo. 

             Nel caso specifico, e anche in quello generico-familiare era proprio mio padre l’incontrastato maître del clan………, sia del nucleo originario che di quelli integrati perciò, in definitiva… “me’ figghiu Ninu” alla sinistra e nuora ab aeternis sorridente alla destra e la sua graziosa centrale autorità ansimata dietro omessi “per favore” o “grazie”. 

         La troia aveva spie ovunque, perfino nelle discoteche, io cambiavo spesso fidanzati e lei, in un modo o nell’altro, ne veniva sempre a conoscenza. Allora si faceva invitare a pranzo, talvolta anche feriale e, rimasta sola, informava accuratamente mio padre suggerendogli di prendere provvedimenti seri a mio riguardo, del tipo sequestro di persona. E dài con i cazziatoni serali, e niente pacchi di maschio regalo per una settimana intera. Questo per almeno tre estati di fila. 

          La quarta estate morì al ritorno da una gita a Sciacca. Beccai una quantità di ceffoni da mio padre anche questa volta perché alla notizia della sua morte non solo non mi scomposi ma sollecitata da una sua provocazione o da un suo nervosismo gli rimproverai di averla troppo, ma troppo, perdonata e troppo amata e ascoltata nonostante fosse stata una pessima madre e una pessima nonna. 

             Dopo avermi picchiata mi disse che non ero degna di andare al suo funerale. Mi lasciò a casa e se ne andò con mia madre e mio fratello. Avevo diciassette anni. Presi un taxi e raggiunsi la chiesa a mezz’ora dalla fine della messa. C’era un mucchio inaspettato di gente, molte signore erano commosse, c’erano bambini, frequentatori del circolo, della spiaggia e altri mai visti né prima né dopo. Mi misi in un ultima fila, ero abbronzatissima e bionda di mare, in prendisole bianco e foulard per le spalle rosa shocking. 

          Non piansi per nulla ma alla vista della corona bianca che mio padre le aveva dedicato ebbi il mio primo attacco di tachicardia, poi un calo di pressione, poi svenni. Un parente acquisito visto un paio di volte mi accompagnò al pronto soccorso mentre la grande-mère accompagnata degnamente da un centinaio tra parenti e amici pronunciava l’ultimo pettegolezzo riguardo al loculo della tomba di famiglia che le era toccato. Mi pare di sentirla: “A’ faccia ri ‘ddra buttana i’ Concetta chi c’appa miettiri pi’ fuorza a’ so’ maritu ‘nnu me puostu”.*

* alla faccia di quella puttana di Concetta (sua sorella, che fece tumulare nella loro tomba di famiglia il marito, dicendo che era una sistemazione temporanea in attesa di acquistare un loculo che non acquistò mai) che le espugnò il letto dell'eterno riposo.

rossella