giovedì 23 ottobre 2014

Lucy, la prima donna


"Tutto è in continuo cambiamento. Non c’è nulla di duraturo"
Peter Cameron, da Andorra, 2014


Caro e indulgente Lettore,
Lampo ed io non ti racconteremo la trama: quella la trovi agevolmente su Internet o nei quotidiani
Non è quella che ci importa.
Amiamo la suggestione del messaggio e siamo drogati, come la maggior parte di Voi, dall'incosciente volere capire perché siamo arrivati alla sconfitta dell'intimità insostituibile del nostro 'IO': non più singoli IO omogenei, bensì un plurimo IO eterogeneo.
     A chi tra voi ha amato la regia di Luc Besson in Nikita o Juno diremo: scordatevelo. La società del controllo e della sicurezza degli uomini si è trasformata: in meglio o in peggio decidete voi, ma nella globalità della nuova umanità.
      Nella stesura del pezzo, per quella magica alchimia che è la fortuità degli accadimenti di esistenza nostra – e meno male!- , Lampo ed io ci siamo imbattuti in tale pittore di Pistoia, vivente, Max Loy, che, per ricordarci che le emozioni forse sono ancora singolari, sentenzia:
 “E’ così: ogni azione e ancor più manifestamente quelle dettate dal sentimento, affondano le radici in una regione misteriosa dalla quale ogni gesto assume un significato trascendente che è caratteristico della figura dell’uomo: egli trascende se stesso, così le sue azioni sono allegorie, immanenza e trascendenza insieme.
Questo è un mistero grande, l’unico.”
 
E già questo.. è interessante, speriamo Vi faccia riflettere.
Per un'analisi più approfondita del film, la telefonata di Lucy alla madre:
 "Mamma, sento tutto.  Lo spazio. La terra. Le vibrazioni. La gente. Riesco a percepire la gravità. Riesco a percepire la rotazione della terra. Il calore del mio corpo. Il sangue nelle mie vene. Riesco a percepire il mio cervello. Il profondo della mia memoria. Il dolore nella mia bocca. Ora capisco queste cose. Riesco a ricordare la sensazione della tua mano sulla fronte quando avevo la febbre. Ricordo di accarezzare il gatto, era così morbido. Ricordo il gusto. Il gusto del tuo latte nella mia bocca. Il sapore, il liquido caldo."
Lei è drogata, ma, se vogliamo penetrare il messaggio, sembra quasi che parli di noi/Voi.
 
  Un accenno al Tempo, il valore unico, come scopre Lucy, grazie ai suoi nuovi poteri. E la materia? Scorre un'auto sul fondo un paesaggio di campagna: accelerando  la velocità del passaggio dell'auto, l'auto scompare. Il nostro passaggio su questo pianeta? Passaggio invisibile. 
Metafora dell'esistenza   Metamorfosi dell'uomo Metafisica della morte.
        Viviamo il nostro tempo e non aggiungiamo nulla di singolarmente diverso da chi ci ha preceduto. Passaggio invisibile: collaboriamo tutti insieme alla distruzione del singolo IO per ottenere una personalità ed una conoscenza che da soli è impossibile.
         In termini di socialità, relazioni personali ed educazione intellettuale, essere geni e riuscire a trasformare il nostro tempo in qualcosa di utile per gli altri: chi inventa novità di utilità universale? Il computer, come entità sovrauniversale che ci avvolge tutti, buoni e cattivi, geni ed ignoranti, e tutti ci coinvolge nella nuova droga cerebrale che si chiama Sharing. Tutto è da condividere: la potenza è mostruosamente utile agli uomini, "un cervello usato al di sopra delle singole capacità di utilizzo di esso". 
 
      Pensate Lucy come una finestra aperta rivolta alla ricerca delle connessioni, non ovvie, tra passato e futuro: la donna diviene un’assenza, è materia principio computer albero radice. Perché, direte voi, una donna e non un uomo per spiegare questa invasione cerebrale? Bella domanda
La risposta, semplice e scientifica, secondo noi: Lucy è il risultato di ricerche ed era femmina. Avremmo preferito che fosse un maschio, ad esempio il maschio Alfa di una qualsiasi tribù preistorica. Ma è solo un nostro pensiero.
Per una riflessione su spazio e tempo; e persone. 
 
       La visione della città New York di 2 secoli prima, metafora di due dimensioni: l'architettura e l'uomo. E’ possibile ricomporre un’identità umana smarrita, corrosa da instabilità e assenza?
Architetture che nascono per racchiudere la vita, per non riuscire a contenerla.
La chiavetta-Lucy, scelta semplice ma illuminante: la traslazione del sapere, l’eredità ai posteri. Attraverso la relazione con il passato va costruita una forma per il futuro
      Le continue, imprevedibili, variazioni della condizione contemporanea, generano l’instabilità degli umani e la relazione instabile con passato e futuro: la moderna discontinuità lacera il presente. Droga cerebrale che inquina, rende egoisti, prevaricatori, asserviti alla società capitalista e al dio denaro. Lo Sharing è la salvezza dell'umanità!

         L’incontro Lucy–Lucy, in stile ET, il sogno–viaggio all’indietro nel tempo e nella formazione del pianeta Terra fino al Big Bang, l’interezza della conoscenza degli uomini in questo esatto momento sta nel cervello di Lucy: è il computer che fa da Sharing del totale sapere. 
 
     Il vuoto nella vita ha un equilibrio incerto:occorre riempire l’esistenza propria e di altri con significati, lavorando sull'emozione. Pena, l’incapacità di costruire o ricostruire il nostro tempo; e di tramandarne il senso.
Da non confondere con lo Sharing, di difficilissima, impossibile protezione, il senso di intimità si rivela il solo capace di risolvere un atto emozionale.

      "Il Passato non determina il Futuro. Puoi fare più di quello che pensi.
L’Amore non è mai uno spreco. Non smettere mai di imparare.
Cerca la Bellezza. Il Sonno e i Sogni ti purificano.
Rispetta la Sofferenza degli altri, ma non darle il Potere di distruggerti.
Abbi fede nella Natura. Nessuno sa fare tutto le cose che sai fare tu.
Rispetta la Forza e la Bellezza del tuo corpo. Trasforma la Bellezza in una Sfida.
Credi in ciò che ami. Fare del Bene ti rende più forte. Apriti all’amore degli altri.
Ricrea ogni giorno la tua Vita. Tutto è in continuo cambiamento. Non c’è nulla di duraturo"
Peter Cameron, da Andorra, 2014

"La bellezza della totale condivisione è la capacità del singolo di potersi alleare con chiunque per esaltare la tua emozione nel bene e nel male. Sconfiggere l'unicità freudiana dell'essere. In cambio si è coscienti del sapere universale che lo sharing può dare. Domanda: è meglio il sapere tutto o la salvaguardia delle proprie emozioni?"

Lampo e Oscuria



sabato 11 ottobre 2014

una bottiglia di rum da 130 euro!



Holly
Occhi menta e basilico, il biondo chignon raccolto con sapienza ammicca in cima al collo pelle di luna; le labbra pennellate con esattezza di rosso vermiglio, nel più puro Tiffany style
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L’Editore annaspa, ansima, infine con un rantolo di voce:” Io non ti ho mai vista….…perché?”
Domanda legittima, cui segue l’audacissima –manco iddu pare!- domanda:”Ci sposiamo?”
“Si vittero, s’amarono, si dissero:”Mio Bene, vuoi dividere le mie pene….”
Pene…?!?!
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Eros moderno, anziché frecce, Riverino adagia sul tavolo una bottiglia di rum, marca XXX, costo 130 euro
Il liquido scorre nelle gole, solleticando cuori e patti.Ignora il nostro cerchio amicale sbellicato di risa e generoso di battute, Holly fissa l’Editore: “Sentiamo, sentiamo” fa Holly.Menta e basilico rinfrescano la psiche dell’impavido, ormai lanciato. 
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 Senti questa storia. Mia nonna ….. Guglielmina ascolta!!! stai scrivendo? Mia nonna voleva farsi suora. Invece le imposero di sposarsi, in chiesa  Questo accadeva a Licata, nel 1800 circa. Quindici parti, cinque figli: lei costrinse i figli maschi a farsi preti, le femmine, perpetue.”
Proposta indecente a Holly?!?! Improbabile.
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Si addiviene all’accordo di matrimonio: lui va in chiesa, lei va in municipio per lei. Giorno e ora, per fortuna, coincidono. Inoltre, “Io sono ssssignorina”, puntualizza Holly
“Anch’io!!!”, contento l’Editore
Cos’ ti sistemi finalmente!” osa Jeanbalve
Ma tu farti un chiletto di c…. tuoi no?!?” graffia Holly
L’Editore è perplesso:Ce ne sono due di matrimoni, quello d’amore e quello di interesse. Matrimonio di interesse non è, d’amore neppure …quindi…..che matrimonio è?” 
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I beni.
La sposa porta in dote un’auto, non è chiaro se sia in affitto o in leasing, un lavoro, una casa, e …..il gatto, anzi la gatta, Sissi, di cui si dirà in seguito
L’Editore: auto cabrio nuova blu, e l’autista, di proprietà…!
Nooo, il tuo autista è la mia damigella, la Pesca. E ho anche la Rosa, e la Pervinca. Beni separati!!!!” esige Holly “Per quel giorno ti cerchi un altro autista, oppure vieni in autobus!”
E’ deciso: l’Editore giungerà in tram, ammesso che per il dì fatidico i lavori del tram siano ultimati

Il trattamento: Luogo: noto locale per raffinati ed esclusivi trattamenti, dove gli sposi siedono su troni disposti su una pedana che, come per magia! si solleva
Tronyiyiyiy !! esulta Holly, “non ci sono paragoniiiii!!!”
Gli invitati: look sportivo-casual, desidera l’Editore. “Sì, sì ” acconsente Holly
Taleeeeeee! Siamo d’ accordo!” felice l’Editore
Tranne il Pittore, costretto -prima ultima e unica volta nella vita- a indossare camicia  cravatta e pantaloni lunghi, come i maschi grandi
Regali di nozze:
Allo sposo: abbonamento del Palermo, curva nord
Alla sposa: abbonamento del Palermo, tribuna coperta centrale, e vipssssssss

Viaggio di nozze: Romantico, propone l’Editore: Parigi,
Noooo!- strilla Holly “La cosa più noiosaaaaa che ho letto nella mia vita è Valigia a volo d’uccello in “Notre Dame de Paris”, di Victor Hugo. Tu mi devi portare a Santo Domiiiingo, a Cubaaa mi devi portareeeeee!!!”
A Borgonuovo ti portassi!!” l’Editore, piccato
A Santo Domingo ci si va sole…..per i dominghi…..!” suggeriscono le tre damigelle, la Pervinca la Rosa e la Pesca
Voli separati, allora, ma anche giornate separate”, conclude tranquilla Holly

Resta, ahimè,  il gatto. Anzi la gatta
L’Editore è allergico e zoofobo
Traslocherà la povera Sissi in terrazzino....o altrimenti salverà vita e alloggio graffiando a morte l’Editore..?

Non mi sposo perché non mi piace avere della gente estranea a casa. Alberto Sordi


lunedì 6 ottobre 2014

Intervista con il Mito Ettore, di Troia


“…giochiamo con il cuore di colui che ci legge perché, se non sente nulla, allora ci avrà letto invano”
Herman Melville

Incontrai Ettore la prima volta da ragazzina.
L’Iliade non mi piacque affatto,  al contrario mi innamorai perdutamente dell’Odissea:
« Narrami, o musa, dell'eroe multiforme,  che tanto vagò,  dopo che distrusse la Rocca sacra di Troia: di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri, molti dolori patì sul mare nell'animo suo, per riacquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni..….».
Da lì,  il mio istinto appassionato di avventura,  sfide, scoperte, sete e fame di conoscenza, si sarebbe dipanato in Salgari Verne Cervantes Kipling: mai sazio.
Ma questa è un’altra storia.
« Cantami, o Diva del Pelide Achille  l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei molte anzi tempo all'Orco generose travolse alme d'eroi…….. »
Eppure …..qualcosa mi prendeva, vibrava nelle mie corde.
Una lunga scia di emozioni e di entusiasmo che la sera non placò, la notte fu incapace di quietare con il sonno.
Sinapsi si rincorrevano veloci, cavalli purosangue, liberando endorfine adrenalina energia vitale
Cosa mi esaltava? Il viaggio nel Tempo, nella Storia, l’intervista all’eroe, l’unico, à mon avis, al Mito: Ettore, di Troia
Ettore, in geometria, sarebbe il cerchio perfetto
La pelle abbronzata dal caldo sole del vicino oriente, occhi dolci e tristi, la piega della bocca all’ingiù di chi – spezzato troppo presto e con violenza- non ha goduto delle promesse della Vita
E’ bello, figlio di Re, ama riamato la moglie Andromaca, assapora la fresca gioia della paternità, vive in un luogo bellissimo, la costa turca.
Uomo di pace, armonia, la sua pietas anticipa Enea: è un figlio della Luce

Il suo contrappunto, Achille
Semidio, distruttivo,  furibondo,  vampiro anaffettivo, amante di sé solo: malgrado gli svariati sessualmente eterogenei accoppiamenti, resta un uomo solo
Non la vittoria in guerra, o l’onore degli Achei, o la gloria muovono la sua ossessione per Ettore e il bisogno di ucciderlo: pulsione primaria è la distruzione della gioia della bellezza della vita che sono in Ettore
“ Fa subito sparire ogni altra stella, così pare or men bella”
Francesco Petrarca ne “Il Canzoniere”

Achille desidera privarlo di tutto: per far ciò, deve privarlo della vita
E dunque:
“ Com’aquila che d’alto per le fosche Nubi a piombo sul campo si precipita A ghermir una lepre o un’agnelletta”
Canto XXII

Dio non guarda, non si accorge, forse distratto dal ben diverso duello tra Davide e Golia. La Storia non si ripete, questa volta
Nulla può l’uomo  contro il semidio: nei passi verso Achille, la morte è nella mente di Ettore, nei suoi occhi gli occhi amati  
“Ma non fia per questo Che da codardo io cada: periremo,Ma glorïosi, e alle future genti Qualche bel fatto porterà il mio nome”
Canto XXII

Nel suo cuore muore la paura,  e vive il coraggio
Ettore muore, e diviene immortale.
Amore è imperituro, eterno: si libera nel cielo azzurrissimo di Turchia, un giorno di ennemila anni fa
“Sciolta dal corpo Prese l’alma il suo vol verso l’abisso,Lamentando il suo fato ed il perduto
Fior della forte gioventude”.
Canto XXII

Ad Achille, il semidio mai nato, mai vivo, resta solo l’accanimento sulle spoglie mortali dell’eroe
E se fossero traslati nel nostro tempo, Ettore e Achille, moderni eroe e antieroe?
Omero consapevole o ignaro, o nella voce della coralità del popolo greco delle origini, la funzione del mito fu di insegnare e divenne fondamento della psicanalisi.

“Achille è l’archetipo del guerriero che da sempre abita la psiche dell’uomo. Nello stato psichico di accecamento dall’ira viene meno il controllo della coscienza, l’uomo entra in un contatto con la sua potenza, avverte di essere una cosa sola col suo scopo, crede di essere invincibile, di poter ottenere subito quello che vuole. La distanza dalla persona che scatena l’ira si azzera e l’altro/a viene vissuto come un ostacolo al dispiegarsi compiuto della collera. L’archetipo del guerriero è la divinità greca e latina di Ares (Marte), il dio della guerra, che per millenni si è impadronito della psiche dei maschi.
Achille sa che l’ira non è in suo potere, ma è lui che appartiene all’ira.
Se riconosciuta e rispettata, dentro di noi, l’ira può  trasformarsi in forza vitale, energia indispensabile per affrontare la vita che ci chiede un atteggiamento eroico.
Diversa è la condizione dei maschi oggi. Educati dalla società a rinunciare alla loro forza, uomini deboli mai iniziati ai misteri della vita dal padre, uomini “per bene”, non hanno un rapporto con l’Ombra e con gli dei che la abitano:  non reggono il dolore di una separazione, la tristezza della malattia e della vecchiaia, un insuccesso subito. Il loro Io troppo debole, se preda dell’ira, ne è sopraffatto.
L’uomo moderno non riconosce il guerriero che è in lui.
L’Io è sopraffatto, distrutto: ne consegue la deriva dell’identità maschile”.
Sulla violenza maschile. Paolo Ferliga

Tanti Achille incontriamo ogni giorno della nostra vita. Ettore? Pochi.

Il desiderio di Ettore, che desidero:
“Immagina, questa l’idea, di unirsi tutti in un luogo devastato dai conflitti e farne uno di visioni e di sogni”

martedì 18 marzo 2014

Mon Anoor



A Elan e Francesco

Fumoso buio stretto l’antro dei soliti compari che, sera per sera, affollano il locale.
Iraniano o italiano che sia, legni scuri e samovar e arazzi e scacciapensieri di ogni dove nel mondo, tutti insieme accompagnano le goliardiche serate degli  allegri compari…di Windsor…?

O passaparola silenzioso o  trasmissione via etere o through the net o messaggio subliminale, ma anche no!, ci si incontra nell’ameno/amato  Mon Anoor.
Si intrecciano parole, si scambiano gesti, si mescolano esperienze, si raccontano aneddoti. E barzellette, perché no?

La valenza non è dire per insegnare:  é piuttosto esserci, e comunicarsi, con grande rilassatezza.
E’ questo il tempo in cui il bar sotto casa o il cortile del palazzo o il comun muretto hanno trovato definitiva e impietosa sepoltura – allo scorrere e procedere della storia nulla può opporre la volontà dell’uomo, né alcun antidoto escogitare: solo, resta la passiva accettazione, e una volontà d’intenti che si stempera e sbiadisce nel fluire del tempo

Mon Anoor é sopravvissuto ai cambiamenti di mode e atteggiamenti del sentire: probabilmente un po’ demodé se interfacciato ai sempreverdi vecchi oltre ai nuovi sempre proliferanti  locali e pub e wine bar modaioli, di certo più affollati dai tanti che condividono l’umore del mostrarsi e dell’esserci. Oltre, ca va sans dire,  alla pulsione dell’incontrare.

Valutazioni statistiche alla mano, non vi sono incontri possibili, né si ravvisa l’opportunità prossima ventura che ve ne siano
Da Mon Anoor si va e si resta con chi si va
Eccezion fatta per gli altre dieci/venti usuali partecipanti al festino, via via divenuti noti e amicali compagni di serate.
Questo l’intento, e la spinta degli allegri compari: quasi non vi fosse alcun faticoso spostamento, e si restasse nel salotto di casa propria, solo un po’ più affollato

Come portarsi dietro il proprio spazio, restando avvolti dentro di esso,  e tutto ciò che ci occorre
Variabile impazzita, o mina vagante improbabile, a volte uno o più stranieri si profilano al bancone in legno scuro con sgabelli alti e sottili (scomodissimi, specie per chi indossa una gonna stretta…)
A volte restano, venendo inglobati nella cerchia dei soliti compari Altre volte si perdono nel buio della sera, per non fare mai più ritorno.

Che fine abbiano fatto, resta per sempre un mistero. Che nessuno intende svelare
Chiacchiera distratta, la domanda a volte é posta all’oste: questi, imperturbabile nella sua sempiterna camicia nera (o anche bianca) inverno o estate sempre sbottonata fino all’ombelico a mostrare orgogliosa il catenone d’oro da cui pende la croce che nemmeno il Corcovado…!!, infradito, anche quelle, per tutte le stagioni, e cadenti comode braghe di mood orientale, “Quell’esaurito!” tuona, servendo un’ottima birra trappista o preparando il celeberrimo cocktail allo zenzero.  

Ogni deliziosa bevanda, vero nettare degli dei, si accompagna ai gustosi piatti nazional-esotici, perfetto mix di cucina iraniana e italiana ideati e realizzati con maestria dalla splendida socia.
E come tacere poi del cicchetto finale, meraviglia di liquore al cioccolato
Ben distesi, un po’ incerta difatti é la posizione eretta, le pupille sgranate e le gambe molli, rilassati i compari se ne tornano a casa, dritti dritti a letto
Je t’aime, Mon Anoor!

lunedì 17 febbraio 2014

la più bella del reame

A Julij Zivàgo

Il était une fois ……Once upon a time….…C’era una volta.......
Una Regina bellissima altissima biondissima che regnava sul Reame delle Case
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Il suo regno contava più abitazioni che di cristiani: multicolori, ad uno o più piani, antiche e nuove, in mattoni o pietre, tutte le case erano SUE!
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Un tristo giorno, però, durante una svagante passeggiata sulla prediletta carrozza blu, la Regina si accorse che ogni vicolo strada piazza muro parete fontanella balata era sgarrupato sbrecciato tremoloso rovinoso; su tutto olezzava un perduroso aroma di pipì: colpevole, l’animale domestico che all’uomo si approccia e si accompagna, dalla gallina alla papera dal cane al gatto al ratto.
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A ciò, marciume e laidi rifiuti di svariata e indifferenziata provenienza si addizionavano, cibo succulento di volatili infestanti e aggressivi: non nuvole, piuttosto colombi e gabbiani scurivano in stormi il cielo blu
La furia della buona Regina rimbombò di pietra in pietra: comandò ai suoi servitori di andare, con livelle righelle rolline ponteggi impalcature gomme e matite e quant’altro servisse alla bisogna, e SUBITO!, por fine a tanto scempio.
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RIpulite, RImettete in ordine, RIlavate, RIsbiancate, RIimbellite ogni cosa!!!” urlò la gentile vocina, - “E che sia fatto subito, SUBITO!”
Altrimenti..”, le pupille lampeggianti, dai servitori proni e tremanti, si volsero ai fidi imperturbabili bianco vestiti giustizieri della corona “Tagliategli la TESTA!! Tagliategli la TESTA!! Tagliategli la TESTA!!
Corsero in strada gli asserviti, e poste in un cantuccio scartoffie e documenti sin qui maneggiati, in men che non si dica, si posero al duro travagghio.

Rosato maiale
andava in quei ameni luoghi bighellonando
e di curioso deseo cianciando
agli uni e agli altri servi rivolge la parola
spizzicando pigro una scarola
Essi turbati tacer eran volenti
Ma del pingue suino le domande son insistenti
Tant’è che un di lor, il più ardito!
Narra il fatto, tutto!, a menadito

Anche i maiali hanno un cuore

L’alma gli si ricolma in meraviglia
restossi taciturno l’animale.
Indi a nessun salvo freno egli s’appiglia
e diritto e fiero al tron regale
profondo grasso e grosso egli s’inchina
dinanzi alla gentil edil Regina
toccando quasi il roseo deretano
tappeto trono e tutto l’ambaradan sovrano
E sicumer l’appella
Orsù dunque Sovrana mia più bella
non pote trattar la vil ciurmaglia
in guisa quasi fosse una canaglia!”
Silente l’osserva la Carina
Ogni chil di mordiba puntina
coscia ventre musso ben pesato
Or l’immagina a lungo nel vin frollato
Di un fil di bava si lecca la boccuccia
Sgrana i cerulei occhioni stride i denti ansima e pronuncia:
TAGLIATEGLI LA TESTA !!!! TAGLIATEGLI LA TESTA!!!! TAGLIATEGLI LA TESTA!!!!”
Residua poca carne al pingue banchetto, così nomò lo ridente ghetto


giovedì 6 febbraio 2014

Studio di una signora

            
Una delle mie più grandi pene è un anello antico che indosso sempre. Sovente ingoio il ricordo tabernacolare di mia nonna paterna puttana con la quale litigavo perché spiava e faceva spiare dai suoi numerosi conoscenti balneari e litoranei i miei amoreggiamenti adolescenziali. 

     Mia nonna è morta di ictus all’età di settantatré anni. Suo figlio maggiore – il più scozzese dei miei zii - durante crapula post esequiale mi fece dono dell’anello della grande-mère adapté à son moyen grand-doigt. La prima volta che lo indossai deposi le mani autocarezzanti alla maniera della nostra gioconda domestica e riflessami allo specchio la piansi un’unica volta, finalmente liberandomi.

        La nonna era una doppia vedova vigorosa e verbosa, sempre sbocconcellante mollichine domenicali del dopopranzo. Una gran troia era stata coi suoi figli maschi perché morto di broncodepressite loro padre elegante e dissolubile, aveva sposato e tenuto in casa un nero quadrupede baffuto nullafacente e linofilo, in recente liquame di vedovanza. 

            Egli si era riprodotto durante il precedente matrimonio in quattro esemplari di satanassi spolpati, brutti e pecorini. Era già stata troia coi suoi figli di primo covile perché l’intruso aveva niente soldi ma un gran fallo fosco - di cui una volta già vecchio intravidi il peso attraverso le sguainate mutande celestine estrapolate da cosce aperte nell’atto di infilarsi le scarpe – e contribuì non poco al loro allontanamento, ancora molto giovani, presso un nido da essi stessi ricreato pur di non presenziare al suo recital da one-man-show di minestre sucate rumorosamente e di capitale del suo predecessore ancora più precipitosamente prosciugato. 

       Il tale sfacciato – intropito – forte del pacco e di millantato carisma godeva della fantasmagorica devozione della gran nonna tettona e delle sue alte caviglie, le più belle che abbia mai visto. Troia perfino nel trasmigrarmi autentiche bocce da fruttivendola e non aristocratiche caviglie da cavalla da trotto, ma soprattutto perché sfruttava i suoi consacrati figli naturali come poteva. A uno spillava quattrini per acciuffare pesciolini di corallo che, a quanto ricordo, erano il nutrimento favorito dalle sue mani diurne e dal collo emerso dall’anima del seno e dai suoi lobi pendenti con aria candida. 

        Tanto candida pelle da abbisognare di trucco rosato d’oltremare vespertino, possibilmente ogni giorno di una nuance inventata nuova dalla sostanza mediterranea. Inoltre, con scaltrezza da bagascia – pardon, da bagatto – trapiantava quote copiose di tali denari dentro le cavità incessantemente deglutenti dei corvini suoi figliastri, formicolanti sonnambuli da bidonville rimasti nell’untuosa capsula natia mentre loro padre, come un indigesto ossicino d’oliva, girovagava stopposo nelle grandi stanze e pulite del prezioso nuovo intestino della grande-mère. A un altro figlio scroccava cibi freschi grondanti di saporite calorie e vini sfiziosi e fruttati.

      Di un altro prendeva il calore, la preoccupazione costante verso di lei e l’odio feroce, che quando si tramuta in amore è l’amore più celestiale che si possa attribuire ad una creatura mortale. La ricordo con un bieco rispetto psichiatrico, le vedo ancora un naso sottile dalle narici un po’ frementi che non mi sfugge mai perché io l’ho ripreso, parimenti sensuale e indiscreto, da lei. Un giorno mi si disse “il nonno Giovanni è morto”. “Ah”, risposi, “quel muffito è morto per davvero”

           Mio padre, per pronto accomodo, mi schiaffeggiò; io, comunque, arrivata a casa della nonna, andai a salutare il mio vero nonno mai conosciuto ritratto giovane e diuturno nella mia futura rigenerabile letteratura, e gli strizzai l’occhio. Ho omesso di dire che dal congiungimento morfologicamente eterogeneo e innaturale della gnoccolona benestante con lo sperma verdastro del favone irrancidito era nata una femmina, Francesca, dalla faccia furtiva e disordinata ma dal corpo e dalle movenze da autentica modella, ben espressa ancora oggi nei suoi cinquantotto anni trigenerativi. 

             La fanciulla era l’unica persona veramente addolorata dalla dipartita, i figli contratti si disperavano perché la morte inaspettata sotto forma di laccio emostatico avevo bloccato la opulenta defluizione di sangue di Zecca. I figli veri – e annesse nuore - della grande-mère, consolavano la duplice vedova in un parossismo di stiracchiato dispiacere di mani e fazzoletti e biascico di tacchi ridiventati familiari, tutto sotto l’umanissimo sguardo del Cristo in versione cuore-di-gesù sospeso a 45 gradi sul grande letto a cascione di legno scuro. 

               Ben presto ella affogò la sua annoiata disperazione in messianici cordogli e benevolenze e, giusto per smaltire gli eccessi lacrimali e le suppurazioni dell’inconsolabilità, prese ad arare ogni villaggio geriatricamente animato da madonnine, apparizioni, goretti, stigmatizzati, esorcisti, miracolati e perfino cesellatori di ex voto d’argento. Donde gitarelle, bianco mangiare in verre e coperchio azzurro, carrube, cesoie in borsa per amputare infiorescenze engagées in caduchi amarcord, the al pomeriggio, sciarpette in lurex, circoli di cavalieri in farfallino a pois, sandali con zeppe di corda e grossi alluci valghi introiettati ai piedi in bella vista, scoponi assolutamente vincenti e inverosimili ripetuti ambi terni e quaterne. 

           Si fece allungare un po’ i capelli, se li tinse di nero e dimagrì. Una nuova Ava Gardner, sessantacinquenne con orgoglio marmoreo e un efficace frisé di coralli, turchesi e tutti i bottoni d’osso sostituiti da cammei di madreperla, ormai destinata a irretire dieci bogart della terza età alla volta, senza per questo sentirsi obbligata a sposarne alcuno. Divenne socia di un club di mare a portata di autobus e lì, ingioiellata e munifica, si conquistò la benevolenza generale, non esimendosi da thalassoterapiche passeggiate sul bagnasciuga sabbioso di Mondello. Da qualche parte, a poca distanza da lì, passavamo le ore mattutine a soleggiarci e nuotare io e la mia mamma, le mie amiche ed io. 

         Il suo gran daffare di chiacchiericcio ecografico tuttavia non la distrasse dal vegliare sulla castità obbligatoria delle sue nipoti maggiori, me e mia cugina, in adolescenza avanzata e dunque prolifere di sorrisi e ammiccamenti, noi bellocce e coscelunghe, verso l’altro sesso. Io eccellevo per il seno, e questo s’è detto, la mia cuginetta omonima invece per un bel sedere da salvataggio naufraghi. Le promenades verso il gelataio conducevano la grande-mère guarda caso sempre più spesso nella nostra direzione, mai che la grande mèr la risucchiasse, né che una grande-merde le ostruisse il cammino. 

         Sicché, la troia tapina, sacrificò le sue canoniche ciarle aleatorie con amiche vecchie e nuove per pettegolezzi e spionaggi ben più soddisfacenti, miranti alle gesta delle sue omonime nipotine, figlie empie di figli devoti e riportandoli per il loro bene ai rispettivi papà o,ancora più condite, al papà dell’altra. Nessuno dei fratelli di mio padre era però disposto a concederle spazi domenicali tra rigori e fuorigioco, né piatti di porcellana ridondanti di sughi speziati e dolci di suo esclusivo e matronesco gradimento, né interesse per le sue faconde lungagnate sull’immoralità di un triangolo di bikini che copre appena i capezzoli o “le felle del culo”. La quale, dovendo essere accontentata, si beava di come i familiari diretti per vero o per finta si facessero inzuppare dal suo disgusto represso o dichiarato per tutti i brancofamiliari giovani, chi puttana, chi pigro, chi irrequieto. 

             Dicevo, i miei zii la sopportavano poco, perciò sbaraccava presto, grazie anche alle mogli poco propense a trascorrere le ore in cucina per appagarle il gargarozzo mai sazio di piccantume e di granfie di olio affiorante giusto per rammollirle il pane. I piatti insipidi e bianchicci e qualche chiazzetta di calcare appiccicata ad hoc finto casual sul suo bicchiere erano l’ideale per tenerla lontana da quella mensa almeno per un paio di mesi. Ergo con maggior frequenza lei sedeva a capotavola da suo figlio-mio padre, il devoto sbirro che di più l’aveva odiata e che adesso si sarebbe fatto amputare un dito perché lei posasse la mano corallina sulla sua spalla anche per mezzo secondo. 

             Nel caso specifico, e anche in quello generico-familiare era proprio mio padre l’incontrastato maître del clan………, sia del nucleo originario che di quelli integrati perciò, in definitiva… “me’ figghiu Ninu” alla sinistra e nuora ab aeternis sorridente alla destra e la sua graziosa centrale autorità ansimata dietro omessi “per favore” o “grazie”. 

         La troia aveva spie ovunque, perfino nelle discoteche, io cambiavo spesso fidanzati e lei, in un modo o nell’altro, ne veniva sempre a conoscenza. Allora si faceva invitare a pranzo, talvolta anche feriale e, rimasta sola, informava accuratamente mio padre suggerendogli di prendere provvedimenti seri a mio riguardo, del tipo sequestro di persona. E dài con i cazziatoni serali, e niente pacchi di maschio regalo per una settimana intera. Questo per almeno tre estati di fila. 

          La quarta estate morì al ritorno da una gita a Sciacca. Beccai una quantità di ceffoni da mio padre anche questa volta perché alla notizia della sua morte non solo non mi scomposi ma sollecitata da una sua provocazione o da un suo nervosismo gli rimproverai di averla troppo, ma troppo, perdonata e troppo amata e ascoltata nonostante fosse stata una pessima madre e una pessima nonna. 

             Dopo avermi picchiata mi disse che non ero degna di andare al suo funerale. Mi lasciò a casa e se ne andò con mia madre e mio fratello. Avevo diciassette anni. Presi un taxi e raggiunsi la chiesa a mezz’ora dalla fine della messa. C’era un mucchio inaspettato di gente, molte signore erano commosse, c’erano bambini, frequentatori del circolo, della spiaggia e altri mai visti né prima né dopo. Mi misi in un ultima fila, ero abbronzatissima e bionda di mare, in prendisole bianco e foulard per le spalle rosa shocking. 

          Non piansi per nulla ma alla vista della corona bianca che mio padre le aveva dedicato ebbi il mio primo attacco di tachicardia, poi un calo di pressione, poi svenni. Un parente acquisito visto un paio di volte mi accompagnò al pronto soccorso mentre la grande-mère accompagnata degnamente da un centinaio tra parenti e amici pronunciava l’ultimo pettegolezzo riguardo al loculo della tomba di famiglia che le era toccato. Mi pare di sentirla: “A’ faccia ri ‘ddra buttana i’ Concetta chi c’appa miettiri pi’ fuorza a’ so’ maritu ‘nnu me puostu”.*

* alla faccia di quella puttana di Concetta (sua sorella, che fece tumulare nella loro tomba di famiglia il marito, dicendo che era una sistemazione temporanea in attesa di acquistare un loculo che non acquistò mai) che le espugnò il letto dell'eterno riposo.

rossella